mercoledì 27 maggio 2009

NOTTE BIANCA A SAN SALVARIO


di Matteo Zola

San Salvario non ha paura, anche perché non ce n’è motivo. La cattiva fama del quartiere, legata all’immigrazione e alla criminalità che ne conseguono, è roba da mettere ormai in soffitta. E l’iniziativa “Torino non ha paura”, promossa dal cartello di associazioni Torino Sistema Solare, per sabato 30 giugno, intende concentrarsi sulle potenzialità sociali di un quartiere troppo spesso utilizzato per il tornaconto dei sostenitori della ronda padana o del multi-etnico a ogni costo.

Musica, concerti, balli, nei locali del quartiere: il messaggio è che “non avere paura” sia il solo modo per evitare il pregiudizio. Parte da qui l'idea di una notte bianca per le vie e le piazze di un quartiere vivace e da sempre crocevia di culture: fin dal suo sviluppo, seguito all’abbattimento della cinte muraria, ospita una sinagoga, sita in via San Pio V, un tempio valdese, quattro chiese cattoliche oggi molto frequentate dai nuovi torinesi, immigrati dall’Africa, dal Sud America, dalle Filippine.

Forse ispirati dal clima del quartiere, giovani cantautori torinesi hanno trovato impulso creativo e possibilità per serate di musica e bisboccia bohemmienne: saranno loro i protagonisti della giornata. Ma la musica continua con Fabrizio Gargarone dell’ “Hiroshima Mon Amour”, la cui vecchia sede era proprio in via Belfiore, che ha curato una compilation che si può scaricare gratuitamente, compresa la copertina firmata brh+, dal sito www.torinosistemasolare.it. Il disco liquido si intitola «San Salvario da mezzanotte alle quattro».

Sabato prossimo si comincerà alle 14,30 al Fluido, nel Parco del Valentino, non diversamente dal tradizionale sabato pomeriggio in riva al Po., con sdraio, stuoini sul prato, drink dissetanti e musica proposta da disc jockey. Alle 17 sarà il momento dei cantautori, per poi spostarsi, all’ora dell’aperitivo, nei locali della zona dove reading e balli animeranno il Biberon, al Diwan, il Clavel, lo Sbarco, il Velvet, tra gli altri. Al Damadama, in Piazza Madama Cristina, una “libreria vivente” darà letteralmente vita a volumi che al posto delle pagine avranno la voce delle persone narranti, evocando Bardbury. Per coloro più sensibili alle passioni di pancia, i kebab della zona offriranno i tipici piatti del quartiere: kafta, falafel, khushaf, tè alla menta.

Gran finale dopo mezzanotte all’Artintown, con i dj e musicisti, dove confluiranno anche ragazze e ragazzi di Torino e provincia invitati nel pomeriggio al Valentino per la giornata conclusiva del progetto antimafia «Aria».

giovedì 14 maggio 2009

FIERA DEL LIBRO, LETTERA APERTA A RAÚL CASTRO


Una lettera aperta degli organizzatori della Fiera del Libro di Torino al presidente cubano Raúl Castro, per chiedere la revoca del divieto che impedisce a Yoani Sánchez di lasciare il suo paese. La Sanchez, 34 anni, è l’autrice dissidente del noto blog Generación Y . Oltre a scrivere per il portale Desdecuba.com, ha pubblicato il libro “Cuba Libre – Vivere e scrivere all’Avana” (edito da Rizzoli), un volume che raccoglie i suoi post più interessanti, tutti molto cronachistici e fortemente critici nei confronti del regime castrista. In Italia i suoi articoli sono pubblicati su Internazionale (al riguardo c'è stata un’aspra polemica con Gianni Minà , che ha definito la Sanchez “pressoché sconosciuta a Cuba” e i suoi post sostanzialmente propagandistici).

“Saremmo stati felici – scrivono gli organizzatori della kermesse torinese - di confrontarci con questa giovane giornalista e scrittrice, che è già conosciuta nel mondo grazie a Internet e al suo blog, letto da quanti seguono con passione le vicende di Cuba. Abbiamo dunque appreso con dispiacere che Yoani ha dovuto rinunciare al viaggio, dopo aver cercato invano di ottenere dalle autorità cubane il permesso necessario a uscire dal Paese, che le viene negato ormai da anni”.

La lettera aperta continua rivolgendosi direttamente al fratello di Fidel Castro, Raúl, dal 2008 presidente del Consiglio di Stato nella piccola repubblica monopartitica: “Signor Presidente, il desiderio di conoscenza è il sale della democrazia e non può spaventare nessuno. Sappiamo che quella di Yoani Sánchez è considerata una voce critica rispetto alle scelte e alle politiche del governo cubano, ma è anche una voce partecipe, responsabile, non violenta, che esprime amore per Cuba e per il suo popolo. Consentendole di viaggiare e di comunicare con il resto del mondo, Cuba onorerà la libertà e il proprio coraggio di guardare al futuro con fiducia”.

lunedì 11 maggio 2009

"CALABRESI ASSASSINO": GLI ANARCHICI RIVENDICANO LE SCRITTE SUI MURI


“Calabresi assassino. Pinelli assassinato, nessuna pace con lo Stato”, firmato Fai , Federazione anarchica italiana. Le scritte comparse questa notte a Torino, vicino ad alcune sedi del Partito democratico e sul muro della redazione de “La Stampa” (oggi diretta da Mario Calabresi, figlio del commissario assassinato), hanno suscitato lo sdegno dell’intero mondo politico. Dalla presidente della Regione Mercedes Bresso (“Una cosa inammissibile e disgustosa, ci sono livelli di bassezza che non sono comprensibili”) a Davide Gariglio, a capo del Consiglio regionale (“Sono azioni teppistiche, contro le quali occorre un'azione comune di tutte le forze politiche e della società civile”), passando per Cesare Damiano, responsabile Lavoro del Pd, e Andrea Ronchi, ministro per le Politiche europee.

La Fai ha rivendicato il gesto in un comunicato diffuso in giornata, accusando tra l’altro il presidente della Repubblica Napolitano di voler “riscrivere la storia”: “Dopo 40 anni lo Stato cerca di assolvere definitivamente se stesso, mettendo sullo stesso piano i carnefici e le vittime. Non è un caso che il protagonista sia Giorgio Napolitano, che, come il suo collega Violante, riscrive la storia mettendo sullo stesso piano le ragioni dei carnefici e quelle delle vittime”.

Le accuse a Napolitano fanno seguito all'invito dello stesso capo di Stato, durante la cerimonia in memoria delle vittime del terrorismo, della vedova Pinelli insieme a Gemma Calabresi, madre del commissario ucciso. Un incontro durante il quale le due donne si sono cordialmente salutate.

Luigi Calabresi fu assassinato il 17 maggio 1972 da un commando di due killer che gli spararono alle spalle. Dell’omicidio vennero accusati (e successivamente, tra le polemiche, condannati in via definitiva) alcuni militanti di Lotta Continua, tra cui, come mandante, Adriano Sofri (autore recentemente di un volume, “La notte che Pinelli”, che ricostruisce la vicenda).

Giuseppe Pinelli era un ferroviere anarchico milanese. Cadde giù dalla finestra della questura meneghina il 15 dicembre 1969, tre giorni dopo la strage di piazza Fontana: era trattenuto dal giorno dell’attentato alla Banca dell’Agricoltura. A interrogarlo fu, tra gli altri, il commissario Calabresi, allora vice-responsabile dell’Ufficio politico milanese. La sentenza D’Ambrosio (l’ultima sul caso, del 1975) parlò, per spiegare la caduta, di “malore attivo” dell’anarchico. Calabresi fu oggetto, sino alla tragica morte nel ‘72, di una violentissima campagna stampa da parte dei gruppi della sinistra extraparlamentare ( e non solo ), convinti del coinvolgimento del commissario nella morte di Pinelli.

QUANDO L'ITALIA VESTIVA GRANATA


11 maggio 1947, stadio Comunale di Torino. Si gioca Italia-Ungheria. Gli azzurri scendono in campo con questa formazione: Sentimenti IV; Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti II, Loik, Gabetto, Mazzola, Ferraris II. Guidata da Vittorio Pozzo, l’Italia vince 3 a 2 contro i magiari. Degli undici scesi in campo quel giorno, dieci giocavano nel Grande Torino : un record tuttora ineguagliato. L'”estraneo” è Sentimenti IV, il portiere-rigorista dei cugini bianconeri.

Quella domenica del ’47 contribuì a dare fama continentale ai ragazzi di Ferruccio Novo, allora allenatore del Toro: sintetizzava la superiorità schiacciante di una squadra nel Paese che deteneva da 13 anni (1934) il titolo di campione del mondo. Anche l'Ungheria schiera 9 giocatori della squadra campione nazionale, l’Újpest, mentre uno dei due estranei è il giovane e talentuoso Ferenc Puskás.

Al Comunale la partita è tesa, le squadre si fronteggiano ad armi pari: alla doppietta di Gabetto rispondono prima Szusza, poi Puskás su rigore. Decide Loik all’89’. Torino batte Újpest 3 a 2. Due anni dopo, nel 1949, la tragedia di Superga: nove granata muoiono, si salva solo il capitano Ferraris II, ceduto l’anno prima al Novara. Il Grande Torino entra nella leggenda, insieme ai suoi record.

venerdì 8 maggio 2009

I TRE VELINI (il manifesto, Gabriele Polo)


Che mestiere è il nostro? Cos'è il giornalismo? Forse il modo migliore per definirlo l'ha trovato uno scrittore messicano, Paco Ignacio Taibo II, dicendo che è un luogo di confine, perché essendo a contatto con il potere, «i giornalisti possono esprimere il massimo della virtù come il massimo della corruzione». L'altra sera, a «Porta a Porta», l'alternativa è stata facilmente risolta. Dai giornalisti presenti è arrivato un semplice adeguarsi allo spirito che - almeno apparentemente - avvolge il paese. Tre velini, cui mancava - per essere pienamente nella parte - solo decolleté e botulino (ma per quest'ultimo sono ancora in tempo a por rimedio).
Di fronte avevano un Papi del Consiglio in tale difficoltà da dover ricorrere al maggiordomo di fiducia per spiegare in Tv che lui non va a letto con le minorenni, rinverdire l'immagine di buon nonno di famiglia, rilanciare la favola populistica dell'uomo che pensa a tutti e con tutti sa stare. Quello che unisce, nella sua presenza, la festa milionaria pagata al rampollo di casata con il semplice brindisi della periferia napoletana. E con l'efficienza dell'uomo di stato che ogni problema vede e a ogni dramma provvede. Eppure, i tre direttori non hanno saputo sottrarsi, hanno accettato il ruolo dei cortigiani, dispensando perbenistici consigli al premier (De Bortoli, Corriere della sera), recitando domande che sembravano assist (Napoletano, Il Messaggero), ammiccando e giocherellando a chi appariva più brillante (Sansonetti, l'Altro).
È vero, non è facile intervistare Silvio Berlusconi, soprattutto in Tv: «scappa» sempre altrove, blandisce, sproloquia portando il discorso da un'altra parte rispetto al quesito di partenza. «Porta a porta», poi, è zona minata, ci vuole un attimo a scivolare nel gossip o nel salottino tra complici. Ma questa recita da cortigiani del sovrano si può evitare. A meno che non si creda che quello - quello di Bruno Vespa - sia il principale luogo del confronto pubblico; che quello - quello di Berlusconi - sia il metro di misura della realtà, il palcoscenico della promozione (di idee o di testate vecchie e nuove). E se si crede davvero questo, se si considera inevitabile la sfida, allora perché ridursi a specchio del premier, perché riconfermare la sua egemonia e permettergli la simulazione dell'onnipotente che si sottopone al giudizio dell'opinione pubblica. O, più semplicemente, perché nessuno - ma proprio nessuno e non solo l'altra sera - ha fatto a Berlusconi la sola domanda sensata per questa vicenda da basso impero: «Signor presidente, come ha conosciuto il padre di Noemi e come mai discute al telefono con lui - che pure ha avuto qualche guaio con la giustizia - delle candidature alle prossime elezioni? Candidature che poi sarà lei, e solo lei, a decidere»? Una domanda semplice, forse troppo semplice per gli attori di un salotto cortigiano.

ELKANN: "FIAT, TROPPO PRESTO PER PARLARE DI TAGLI"


“Non serve essere grossi per essere grandi”. Con queste parole (una citazione dell’ex segretario Onu Kofi Annan), stampate sulla fiancata della sua 500, John Elkann, vicepresidente della Fiat, ha salutato i partecipanti del Simposio di management organizzato dall’Università di San Gallo, in Svizzera.

“L'importante è guardare al di là dei confini nazionali e creare un gruppo automobilistico forte, con prospettive di lungo periodo”, ha detto Elkann spiegando agli studenti la logica dell'alleanza con Chrysler e del progetto di matrimonio con la Gm Europe. “La sfida è quella di creare un'azienda veramente europea, ma è troppo presto per parlare di possibili tagli agli stabilimenti o di punti importanti di un eventuale accordo”.

A chi gli chiedeva chiarimenti, in qualità di presidente, sul possibile impegno finanziario di Exor (la società della famiglia Agnelli che detiene una partecipazione pari a poco più del 30% in Fiat) nel progetto di fusione, Elkann ha risposto: “Non abbiamo mai escluso la possibilità di partecipare finanziariamente all'operazione”.

giovedì 7 maggio 2009

sì lo so, non ci sono foto nè video nè niente. e allora?

La Fissazione


René era soddisfatto quella mattina, trovando il suo piede destro sotto le coperte. La sua carne difatti aveva necessità di iniziare la giornata nelle condizioni migliori. Non era da molto che la Fissazione aveva iniziato a interessarsi di lui. Aveva solo 55 anni, ben portati.Viveva nella cella n°3891, nella sezione europea di Raccolta. Il personale era gentile, giovane, italiano. Tutti tossicodipendenti immuni. Gli Unici erano i tossicodipendenti, gli Unici e gli Ultimi. La sua stanza era minuscola, come tutte le altre. Almeno credeva: non era mai uscito da là. Erano 55 anni, ormai.

Eppure sapeva tutto, aveva letto tutti i libri del suo predecessore. Da Lascaux a Picasso, da Saffo a Villa Telesio, da Spartaco a Obama: sapeva, René sapeva. La Fissazione aveva colpito il suo piede da quasi un mese: un record, di solito durava due settimane scarse. Ma René non aveva paura, La conosceva: si sarebbe spostata presto. Sperava di poter scrivere entro pochi giorni.

Allungò le dita del piede verso il contenitore ovale ai bordi del letto, riuscendo senza difficoltà a premere il bottone essenziale. Un tubo di gomma uscì docile incastrandosi tra alluce e secondo. Al contatto con la pelle umana il serpentello artificiale si allungò obbediente fino alla bocca del malato, fin dentro la sua gola. René era contento, aveva una fame incredibile.

Da quando la Malattia aveva colpito l’umanità, i tossici avevano deciso di rinchiudere e salvare tutti dentro edifici – un tempo grossi centri commerciali – dotati di tutti i comfort necessari ai Nuovi Paralizzati. Cibo, letto, libri. Così fu all’inizio. Il resto, solo ricambio generazionale. I tossici diventavano tossici, gli altri Nuovi Paralizzati.

Sazio, René aveva bisogno di un orgasmo. Batté tre volte il tallone e la porta si aprì. “Arrivo, René, arrivo”. Un giovane dai lunghi capelli neri entrò con in mano una siringa – per lui – e nell’altra l’orgasmo di René. “Grazie, Michele”. “Divertiti”. “Drogati”. “Lo farò”. “Mi divertirò anch’io”. “Certo, René, certo”. Rimasto solo, il piede di René si eccitò, grazie all’orgasmo portatogli da Michele il tossicodipendente.

Due giorni dopo, la Fissazione di René si era, come il 55enne francese aveva previsto, spostata nella mano destra. Ciò che il malato non aveva previsto era il suo essere mancino.

Tre settimane dopo Michele, entrando nella cella di René, urlò terrorizzato. C’era qualcosa che non andava nella stanza. Un’enorme finestra lo fissava. Non poteva essere, non c’erano mai state finestre nella minuscola cella. La porta, poi, la porta era aperta, spalancata. E tutto quel buio non c’era mai stato. E quella scritta – “l’assoluto è rinchiuso” - vergata da una mano incerta.

René non fu mai trovato. D’altronde, non poteva essere andato molto lontano, la Fissazione lo avrebbe presto raggiunto.

Non cambiò nulla nella sezione europea: solo, numerosi incendi scoppiarono ogni tre settimane, illuminando i rari fiori tra le tombe dei tossici e dei Nuovi Paralizzati. Ogni tanto, un usignolo moriva tra le fiamme, cantando.

da villatelesio.wordpress.com

Quando Chatwin iniziò a guardare l’orizzonte


Quando nel 1966 un giovane inglese, dipendente Sotheby’s esperto di Impressionismo, decise di recarsi da un oculista per un piccolo problema di strabismo, nessuno avrebbe potuto sospettare che quella visita avrebbe cambiato la storia della letteratura gitana, quella “da viaggio”, scritta da nomadi in borghese. L’oculista era Patrick Trevor-Roper, pioniere della lotta per i diritti gay, il giovane era l’allora ventiseienne Bruce Chatwin. Il dottore consigliò al futuro autore di “What am I doing here?” di non preoccuparsi per la vista, ma di evitare comunque l’osservazione troppo ravvicinata dei dipinti. “E cosa potrò guardare?”, chiese Chatwin; “Beh, guardi l’orizzonte”, rispose Trevor-Roper. E Chatwin l’orizzonte lo raggiunse camminando.

Nato nel 1940 nella “città delle sette colline”, Sheffield, Chatwin inizia a scrivere tardi, intorno ai trentacinque anni. Era malato di Aids, lo era dal 1980, e la sua morte a Nizza nove anni dopo non fu causata, come lo stesso scrittore voleva far credere, dall’infezione successiva ai morsi di un pipistrello cinese, ma dallo stesso HIV. Morì l’8 gennaio, dopo aver passato gli ultimi mesi della sua vita su una sedia a rotelle. Lui, che sempre e comunque, con le mani o con i piedi, si trascinava avanti. Dopo Sotheby’s Chatwin iniziò a lavorare per il Sunday Times, al quale mandava articoli da ogni parte del mondo. Ma non poteva, la carriera giornalistica, affascinarlo più di tanto. Non era un Kapuscinski, ma un Kerouac snob, un beat esteta. Pensò di raccogliere tutto il materiale scritto (e ancora da scrivere) in un volume. Nasceva con quel pensiero la “letteratura della Moleskine”, ovvero quel quadernino di pelle nera in cui Chatwin era solito scrivere le sue impressioni di viaggio, oggi commerciale gingillo da pseudo - scrittori. Nascono le leggende sull’autore inglese, le malelingue, le invidie, le passioni. “Ci sono poche persone al mondo con una presenza che incanta e amalia come incanta e amalia Bruce Chatwin – ha scritto Susan Sontag - non si tratta soltanto di bellezza: è un’aura, una luce negli occhi”.

Nel 1976 Chatwin si trova a casa di Eileen Gray, architetto parigino. Sul muro una cartina della Patagonia. L’anno dopo esce “In Patagonia”, forse il più intenso libro del nomade inglese. Un viaggio alla ricerca di Charley Milward, un marinaio inglese, zio della nonna di Chatwin. In realtà più che un marinaio, era l’orizzonte ciò che lo scrittore cercava. C’è in Patagonia tutta la scienza del viaggiatore di talento: l’antropologia (una sorta di studio sui gallesi espatriati), il mistero, l’ignoto attraversamento di terre sconosciute e certamente intrise di fascino, per un giovane inglese a piedi nudi, amante dell’Impressionismo, esteta fino al midollo. Scriveva di getto, riempiendo il suo zainetto di leggende, racconti, aneddoti (non sempre veri). Eppure, anche nell’inganno cosciente perpetrato talvolta (come certe testimonianze sembrano confermare) a lettori incoscienti, c’è sempre stato, nella sua prosa, il suono dei passi percorsi, veri come i chilometri ingoiati.

I TEMPESTOSI PLAGI DI GLENN BROWN


Nel novembre del 2000 un giovane artista nominato al Turner Prize, il prestigioso premio di arte contemporanea organizzato annualmente dalla Tate Gallery di Londra, venne accusato di plagio. La sua opera, “Loves of shepherds”, fu considerata (e in effetti lo era) praticamente identica alla copertina di un libro di fantascienza del 1974, “Double star” di Robert Heinlein. Il giovane artista era Glenn Brown, 43 anni, inglese di Hexham.

Quello che i critici non capirono allora è che lo stesso stile di questo pittore presuppone “il plagio”: ma un plagio inteso come copia trasformata e rivoluzionata, non una volgare riproduzione. Come ebbe a dire in un’intervista alla Bbc il presidente della giuria del Turner, sir Nicholas Serota, «anche Picasso prendeva in prestito da Rembrandt, e proprio per questo non si può accusare Brown di plagio: lui prende un’immagine, la trasforma e le dà tutto un altro significato rispetto all’originale».

Per chi volesse ammirare (o criticare) le opere di Brown in Italia, un’occasione c’è: la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo presenta, dal 28 maggio al 4 ottobre 2009, una retrospettiva dell’artista britannico, organizzata in collaborazione con la Tate di Liverpool e a cura di Francesco Bonami e Laurence Sillars. Scrive Bonami introducendo la mostra: «Guardando un'opera di Glenn Brown si ha l'inquietante impressione di essere davanti a qualcuno che si conosce bene, ma che è stato trasformato in qualcun altro o ne ha misteriosamente acquisito le sembianze. La sua grandezza risiede nella capacità di raccontarci gli infiniti mutamenti della storia della pittura, la sua decadenza e la sua resurrezione, la sua capacità di restare giovane mentre intorno a lei tutto invecchia inesorabilmente».

E in effetti basta dare un’occhiata ai lavori di Brown per percepirne la natura continuamente in trasformazione: superfici di colori ondulati e tempestosi, scheletri paradossalmente in decomposizione, mele nelle quali si riflette la burrasca (“Burlesque”, 2008), uso continuo del trompe-l’œil, ottocentesche signore dal volto verde, amletiche “gole profonde” (“Deep Throat, 2007). Saranno oltre sessanta, tra quadri e sculture, “i visionari plagi” di Brown alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo: «Un percorso – scrivono gli organizzatori - attraverso i diversi nuclei pittorici e concettuali prodotti dall’artista nel corso degli anni».

MINOLAND


Un’intera giornata con (e su) Giovanni Minoli, il (bravo, ma non divino) giornalista torinese, autore e creatore di programmi come Mixer, Blitz, Quelli della notte, La storia siamo noi. Una giornata agiografica nella sede moderna e un po’ fredda della Piemonte Film Commission. E’ successo ieri, con la presenza-partecipazione di Alessandra Comazzi e Claudio Sabelli Fioretti della Stampa, e la presenza-assenza di Gian Carlo Caselli, la troupe di Tv-Talk (un altro programma minoliano), la moglie del giornalista, la redazione di Futura. C’ero anch’io: dall’inizio alla fine, almeno fisicamente, ho ascoltato. E visto. Mancava l’incenso.

Vedere contemporaneamente in uno schermo stile cinema Troisi che finge di essere un carabiniere sottosviluppato che guarda la “Domenica In” di baudiana memoria, o l’avvocato Agnelli che definisce ironicamente De Mita un intellettuale della Magna Grecia, è uno spettacolo unico. Peccato per la cornice post sovietica che accompagnava gli straordinari filmati minoliani. Francamente non ho capito il perché di questa giornata, che ha regalato momenti interessanti – penso a Mixer, al collage di interviste e al Minà di Blitz, con la pancetta cubana mentre due geni (o forse uno solo) improvvisavano nelle “altre” domeniche Rai, lontane mille miglia dal grigiore di Rai Uno.

E poi d’improvviso, mentre l’incenso tarda ancora ad arrivare, e Minoli ride, sorride, si compiace, si stiracchia e beve, seduto in prima fila osserva i suoi lavori (eri bravo, Giovanni), il dramma di una pausa pranzo che addormenta le coscienze. Si torna ed è subito fiction: Un posto al sole, Agrodolce, Napoli - Filicudi solo andata. E giù con il miracolo italiano delle soap innovative e sociali, con il Nostro che racconta con fare imprenditoriale che lui, molto prima di Obama, nel futuro ha sempre creduto. Yes, you can, Minoli, mentre scorrono le immagini splendide di una terra lontana e insanguinata, non insaponata come la dipingi tu, e Lombardo ti sorride e non ti finanzia. Lombardo. E l’innovazione. E via a passo di tango, dopo altri filmati confusi e affascinanti, è il momento di Sabelli Fioretti. Appunto.

Che dolcezza Arafat sorridente e Gheddafi bugiardo, Marcos tenero e Agnelli geniale, Berlusconi in difficoltà (è cresciuto, l’Imperatore): che normale (e dunque bravissimo) giornalista eri, Minoli. Ieri ho conosciuto il tuo lato soap, il tuo lato imprenditore televisivo, ma di quelli romantici (“che l’alta definizione è inutile”), di quelli “spero che voi giovani mi seguiate”.

Magari Minoli, magari trovassi il coraggio di passare da Berlinguer a Un posto al sole. O magari prima preferirei trovarlo, un posto.

"FIAT, DRASTICI TAGLI IN VISTA"


Secondo il quotidiano tedesco Handelsblatt la Fiat, a seguito dell’accordo con Opel, è intenzionata a effettuare drastici tagli anche in Italia. Secondo il giornale il Lingotto chiuderà alcuni stabilimenti in Europa, tra cui uno in Italia settentrionale e uno nel meridione. La previsione è contenuta nel "progetto Fenice" presentato dall'amministratore delegato Sergio Marchionne al governo tedesco. Inoltre, secondo quanto dichiarato dal consulente e consigliere di amministrazione Fiat Roland Berger al Financial Times Deutschland , il piano prevede anche la chiusura di un impianto nel Regno Unito e di un altro in Polonia.

Tutto ciò nonostante il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola abbia scritto – proprio a seguito delle indiscrezioni del quotidiano tedesco Handelsblatt – una lettera a Montezemolo e a Marchionne ribadendo come “la centralità delle fabbriche italiane, nell'ambito dell'accordo tra Fiat e Chrysler e delle trattative per la Opel, resti fondamentale”.