giovedì 7 maggio 2009

Quando Chatwin iniziò a guardare l’orizzonte


Quando nel 1966 un giovane inglese, dipendente Sotheby’s esperto di Impressionismo, decise di recarsi da un oculista per un piccolo problema di strabismo, nessuno avrebbe potuto sospettare che quella visita avrebbe cambiato la storia della letteratura gitana, quella “da viaggio”, scritta da nomadi in borghese. L’oculista era Patrick Trevor-Roper, pioniere della lotta per i diritti gay, il giovane era l’allora ventiseienne Bruce Chatwin. Il dottore consigliò al futuro autore di “What am I doing here?” di non preoccuparsi per la vista, ma di evitare comunque l’osservazione troppo ravvicinata dei dipinti. “E cosa potrò guardare?”, chiese Chatwin; “Beh, guardi l’orizzonte”, rispose Trevor-Roper. E Chatwin l’orizzonte lo raggiunse camminando.

Nato nel 1940 nella “città delle sette colline”, Sheffield, Chatwin inizia a scrivere tardi, intorno ai trentacinque anni. Era malato di Aids, lo era dal 1980, e la sua morte a Nizza nove anni dopo non fu causata, come lo stesso scrittore voleva far credere, dall’infezione successiva ai morsi di un pipistrello cinese, ma dallo stesso HIV. Morì l’8 gennaio, dopo aver passato gli ultimi mesi della sua vita su una sedia a rotelle. Lui, che sempre e comunque, con le mani o con i piedi, si trascinava avanti. Dopo Sotheby’s Chatwin iniziò a lavorare per il Sunday Times, al quale mandava articoli da ogni parte del mondo. Ma non poteva, la carriera giornalistica, affascinarlo più di tanto. Non era un Kapuscinski, ma un Kerouac snob, un beat esteta. Pensò di raccogliere tutto il materiale scritto (e ancora da scrivere) in un volume. Nasceva con quel pensiero la “letteratura della Moleskine”, ovvero quel quadernino di pelle nera in cui Chatwin era solito scrivere le sue impressioni di viaggio, oggi commerciale gingillo da pseudo - scrittori. Nascono le leggende sull’autore inglese, le malelingue, le invidie, le passioni. “Ci sono poche persone al mondo con una presenza che incanta e amalia come incanta e amalia Bruce Chatwin – ha scritto Susan Sontag - non si tratta soltanto di bellezza: è un’aura, una luce negli occhi”.

Nel 1976 Chatwin si trova a casa di Eileen Gray, architetto parigino. Sul muro una cartina della Patagonia. L’anno dopo esce “In Patagonia”, forse il più intenso libro del nomade inglese. Un viaggio alla ricerca di Charley Milward, un marinaio inglese, zio della nonna di Chatwin. In realtà più che un marinaio, era l’orizzonte ciò che lo scrittore cercava. C’è in Patagonia tutta la scienza del viaggiatore di talento: l’antropologia (una sorta di studio sui gallesi espatriati), il mistero, l’ignoto attraversamento di terre sconosciute e certamente intrise di fascino, per un giovane inglese a piedi nudi, amante dell’Impressionismo, esteta fino al midollo. Scriveva di getto, riempiendo il suo zainetto di leggende, racconti, aneddoti (non sempre veri). Eppure, anche nell’inganno cosciente perpetrato talvolta (come certe testimonianze sembrano confermare) a lettori incoscienti, c’è sempre stato, nella sua prosa, il suono dei passi percorsi, veri come i chilometri ingoiati.

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