lunedì 22 giugno 2009

C.S.I CALCIATORI STATI INDIPENDENTI


di Francesca Biglia

Via Spazzapan. Zona Lingotto. La Torino assolata d'inizio estate. Tanti sguardi, fischi, musica, fremiti all'incrociarsi di maglie e gambe che cercano l'incrocio dei pali. L'anno scorso. L'anno ancora prima. Quest'anno ancora una volta.
Balon Mundial, il primo mondiale per migranti di Torino. Uno dei modi - e tanti mondi - per dire calcio. E per fare integrazione. In questi giorni in cui l'Europa si ridisegna nelle sue paure e l'Italia mette in campo, tra le sponde del Mediterraneo, nuove strategie d'intercettazione e respingimento. Da tre anni, mentre altrove si gioca il calcio dei professionisti, di quelli pagati e affermati, il calcio dei riflettori e degli scandali, a Torino si fa il gioco di chi la città la vive, la suda, la (ri)popola e l'anima. Il football "senza frontiere", scriveva qualcuno, "il football della nostra memoria felice". Quattro week-end di calcio, dal 13 giugno al 5 luglio. Cinquanta partite. Più una finale interregionale contro le vincenti di altri "simil Balon" a Genova, Milano e Bresciano. Un gruppo di 28 squadre, provenienti da 28 Paesi. Una città. E quasi seicento giocatori. Lavoratori con la passione (e a volte o un tempo la professione) del pallone, che in una manciata di fine settimana d'inizio estate vestono le maglie della loro "nazionale". Marocchini, senegalesi, tunisini, ivoriani, nigeriani, ghanesi, congolesi (Brazzaville e Repubblica Democratica), camerunensi.

Storie di vita e di pallone. Moustapha, numero 1 del Senegal, ambulante, oggi glutei meno affusolati e qualche chilo in più sulle spalle, ha un passato in nazionale under 21 e tante promesse tra mani e guantoni da raccontare. Oltre che un conto aperto con i rigori che son costati alla sua "nazionale torinese", nonostante tutti i Gri-Gri, la coppa della prima edizione. Mancano gli egiziani, quest'anno. Il kebab-team. Allenamenti mattutini al parco del Valentino, dopo le preghiere in moschea e prima dei turni al Kebab. Sfilacciati in campo ma tutta disciplina fuori. E troppo poco tempo nei ritagli dal lavoro per ricomporre la squadra. Il prossimo anno, forse. Chissà se ci sarà ancora l'allenatore del Ghana. Ebow Essien. La sua storia la didascalia forse più incisiva per le istantanee di vita di tanti dei giocatori del torneo. Venticinque anni fa era in Africa, ancora. Giocava. Con la sua nazionale, una nazionale vera, quella. E vinceva. Tanto da guadagnarsi l'ambita Coppa d'Africa. 18 marzo 1982. Ghana-Libia. Ghana vince ai rigori. Ed Ebow, sull'onda dell'entusiasmo, parte. Contrattato dall'Olympiakos Pireo. Si ritrova in Italia, con un impresario scappato con i soldi e un sogno da riporre nel cassetto, per dedicarsi alla carriera di operaio in Val Susa.
Brasiliani, colombiani, ecuadoreñi, peruviani, boliviani, paraguagi.

Un mondo a colori. Ronni, capitano della nazionale brasiliana, distribuisce biglietti da visita della palestra dove insegna capoeira. Sul retro l'insegna dell'impresa idraulica per cui fa lavoretti. Non figura nel suo biglietto, ma lo si legge nel suo modo di calciare: Ronni anche balla la sera i ritmi dei carnavales nel ristorante del suo mister e nelle churrascarie torinesi. Cinesi. Il portiere Tian Yu, definito da qualche malizioso giornalista "il più basso tra i bassi", e il capitano Ma Quianli che chiedono, al calcio d'inizio di Balon 2008, un minuto di silenzio e la benda nera al braccio per le vittime del terremoto dello Sichuan. Quasi tutti studenti del Politecnico, che in scambi programmati tra Fiat e Pechino iniziano a portare in giro altri volti, oltre a quelli odorosi dei ristoranti cinesi e di un'immigrazione nascosta e impenetrabile di una Cina di nuovo lontana dopo i riflettori olimpici. Albanesi, rumeni e moldavi. Anche la squadra del C.S.I. Calciatori Stati Indipendenti, di post-sovietica memoria. Andrei allena e attende che il suo titolo di studio medico venga convalidato, per poter lavorare come infermiere in una qualche clinica della zona. Ma i tempi son lunghi. Nel mentre l'arrivo, nel silenzio della clandestinità della fidanzata da Chisinau, un figlio, lavoretti saltuari, giri eterni in vespa o in bici per la città, tanta politica e fervore nel ricordare e spiegare comunioni linguistiche e identità nazionali di questa nuova Europa ad est.

Tutti assieme, dietro un pallone. Due squadre di stampo italiano, una mista - United Colors of Arci - e gli Azzurri. Quelli del quartiere e delle società di circoscrizione, a sfidare col calcio all'italiana i campioni in carica ivoriani e mettersi in gioco anche loro, sul campo e non solo, come padroni di casa e come ospiti. In tutti i sensi.
Da quest'anno anche argentini, maliani, eritrei, sudanesi, etiopici. Alcuni di loro sul loro tesserino sportivo avranno scritto Casa Bianca. Corso Peschiera. Mentre attendono una casa e si ancorano al loro stabile fatiscente, la ex-clinica San Paolo occupata da otto mesi. Rifugiati, perlopiù del Corno d'Africa, con permesso di soggiorno per asilo politico e speranze che oscillano tra Coordinamenti di solidarietà, Comune, Programmi SPRAR, corsi d'italiano e quotidianità. Mettono insieme una squadretta e invitano a prendere un tè a "casa" loro, chi vuole, per vedere, per capire. Perfino una squadra greco-turca, la "selezione della pace" per eccellenza di tutto il torneo.

Nuove cittadinanze. I nuovi cittadini, così si usa chiamarli. Immigrati. Migranti. Torinesi. Dalle origini un po' più esotiche. Gente che viene da lontano. Prime e seconde generazioni. Spalti assolati ricolmi di accenti misti che si mescolano in un italiano più o meno perfetto colorato dalle gerga di fuori e masticato insieme a tortillas, empanadas e dulces casalinghi tirati fuori da borse frigo mai vuote. La città che si cerca e ritrova in spazi e tempi comuni e condivisi. Nei tempi dilatati delle partite. Negli attimi sospesi dei rigori. Nei ritmi concitati di balli e percussioni che inframmezzano i match. Nelle radiocronache accelerate che inseguono i contropiedi. In domeniche di gioco e di svago, dove a essere intercettati son solo i palloni. E in cui stare vicini è più semplice che respingersi.
Balon Mundial è un torneo di calcio a 28 "nazionali" i cui protagonisti sono le comunità di migranti del territorio torinese, il calcio e lo sport, l'aggregazione che passa attraverso la sfida, la condivisione che si mescola al sudore, tra campi, spalti e spogliatoi. Balon Mundial è anche un "terzo tempo" di incontri e scambi culturali ai margini dei campi. La guida ai servizi sportivi della città, l'album di figurine dei giocatori tipo edizione Panini, la radiocronaca di speaker di quattro continenti con collegamenti in onda su Radio Flash (sulla frequenza 97.6). E un contest fotografico per ritrarre i tanti volti del Balon e altrettanti mo(n)di di fare integrazione.

da PeaceReporter

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